giovedì 25 agosto 2016

IL GIUDICE E LA VEDOVA

Lectio divina su Lc 18,1-8


Invocare
O Dio, che per le mani alzate del tuo servo Mosè hai dato la vittoria al tuo popolo, guarda la tua Chiesa raccolta in preghiera: fa’ che il nuovo Israele cresca nel servizio del bene e vinca il male che minaccia il mondo, nell'attesa dell’ora in cui farai giustizia ai tuoi eletti che gridano giorno e notte verso di te. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Leggere
1 Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 2«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. 3 In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: "Fammi giustizia contro il mio avversario". 4 Per un po' di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: "Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5 dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi"». 6 E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. 7 E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 8 Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

Un momento di silenzio meditativo perché la Parola possa entrare in noi ed illuminare la nostra vita.

Capire
Nel capitolo 18 del vangelo di Luca, l’autore conclude il lungo insegnamento sulla fede, che aveva iniziato nel capitolo precedente con la richiesta dei discepoli a Gesù “Accresci la nostra fede”. Ma la fede non dipende da Dio, darla, accrescerla o meno, la fede è la risposta degli uomini al dono d’amore che Dio dà a tutti.
Nel brano di questa domenica, si conclude questo lungo insegnamento sulla fede. Rischiando di essere fuorviati dal primo versetto che leggiamo, a comprendere che questo sia un insegnamento sulla preghiera. In realtà non è un insegnamento sulla preghiera, ma è l’assicurazione della giustizia in questa società. Il fine di questo brano è la giustizia e il mezzo è la preghiera.

Meditare
v. 1: Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai. 
Quest’introduzione ha lo scopo di collegare la parabola con la «piccola apocalisse» precedente, suggerendo un comportamento adatto al tempo dell’attesa.
La raccomandazione di "pregare senza stancarsi" appare molte volte nel Nuovo Testamento. Era una caratteristica della spiritualità delle prime comunità cristiane. Ed anche uno dei punti in cui Luca insiste maggiormente, sia nel Vangelo come negli Atti. 
È importante capire le sfumature di questo versetto. Luca sottolinea le parole “sulla necessità”. In greco per indicare questa necessità, viene utilizzata la parola dein espressione che in Luca ricorre molte volte e indica abitualmente la passione come passaggio obbligato verso la resurrezione. E infine “senza stancarsi”, cioè quasi a riprendere le braccia alzate di Mosè in preghiera Luca riporta una espressione tipicamente paolina: me enkakéin che significa “non lasciar cadere le braccia, non scoraggiarsi”. Il «pregare senza stancarsi» evoca allora ben più della stanchezza, rimanda all'abbandono delle armi da parte di un soldato durante il combattimento; dice: pregate senza deporre mai le armi, senza disertare. In realtà la parabola non punta sulla necessità della preghiera, ma sulla fiducia in Dio che, nonostante il ritardo, farà giustizia ai suoi fedeli.
vv. 2-3: In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: "Fammi giustizia contro il mio avversario". 
Qui vengono delineate le caratteristiche dei due protagonisti della parabola: un giudice e una vedova.
Il giudice è descritto in modo breve e incisivo come la figura tipica dell’empio, che non teme Dio e non si cura del suo prossimo. Anche la vedova viene descritta in modo conciso. Il lettore sa che le vedove, insieme agli orfani, rappresentano una categoria indifesa e esposta all’oppressione, perché prive di protezione contro gli sfruttatori e i prepotenti (cfr. Es 22,21-23; Is 1,17.23; 9,16; Ger 7,6; 22,3). La protagonista del racconto appartiene a questa categoria, ma non è disposta ad accettare il sopruso di cui è vittima, perciò si rivolge al giudice per avere giustizia.
In questo atteggiamento insistente abbiamo un esercizio a vivere un’esistenza contrassegnata da quella che i Padri chiamavano «memoria di Dio», di ricordare cioè che Dio è costantemente all’opera nella nostra esistenza e nella storia: questo ci condurrà a familiarizzarci con lui fino a discernere come vivere in modo conforme alla sua volontà.
vv. 4-5: Per un po' di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: "Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fasti­dio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi". 
Il giudice non vorrebbe interessarsi di un caso per lui totalmente insignificante e rimanda a tempo indeterminato il suo intervento. Ma la donna non si rassegna alla situazione e fa ricorso all’unica arma in suo possesso, l’insistenza.
Il giudice è una persona cinica alla quale interessa soltanto il proprio interesse e non i bisogni delle persone. Ma all’insistenza della donna cambia pensiero. L’evangelista usa il termine “importunarmi”. È curioso il termine che adopera l’evangelista, che letteralmente è “a farmi un occhio nero”. Fare un occhio nero non significa tanto che questa vedova al giudice lo colpisca con un pugno, ma fare un occhio nero era un’espressione che significava “danneggiare la reputazione”.
Alla fine il giudice, se non altro per liberarsi di tale molestia, cede e fa giustizia (ekdikeô) alla donna: ciò che prevale in lui non è il senso del dovere, ma il desiderio di non essere più importunato.
vv. 6-7: E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 
Qui Gesù propone la sua interpretazione della parabola. Egli richiama l’attenzione dei discepoli non tanto sull’insistenza della donna, a cui sembrava rimandare l’introduzione, ma piuttosto sul giudice.
Nelle sue parole Gesù esprime il pensiero fondamentale della parabola. Se un giudice disonesto per motivi egoistici acconsente alle richieste insistenti di una vedova, quanto più Dio, che è padre buono, ascolterà le grida di implorazione dei suoi eletti. È l’atteggiamento del giudice il punto sul quale Gesù fa leva per illustrare il comportamento di Dio. Egli esprime il suo punto di vista con una domanda: «Ma Dio non farà giustizia per i suoi eletti che gridano a lui giorno e notte?» 
In base al metodo rabbinico chiamato qal wahomer (ragionamento a fortiori), egli afferma che, se un giudice, per di più empio, alla fine si decide a fare giustizia alla vedova, maggior ragione Dio farà farà giustizia per i suoi eletti, dal momento che è un Padre premuroso e giusto.
L’espressione «fare giustizia (ekdikêsin)», usata sia per il giudice che per Dio, significa difendere i diritti di una persona, darle ragione, garantirle quello che le spetta. Per gli eletti, anche quando non sono oggetto di persecuzione, ciò significa proclamare pubblicamente, mediante l’attuazione piena del regno, che le loro scelte erano giuste e conformi alla volontà di Dio. Proprio la certezza che ciò avverrà rappresenta il punto saliente della parabola.
C’è ancora una domanda di Gesù: «E tarderà nei loro riguardi?». Egli dice che il tempo dell’attesa sarà breve: Dio farà presto giustizia agli eletti che gridano a lui. Questa idea però non è in sintonia con quanto l’evangelista intende dire nel suo vangelo, e cioè che la venuta finale del regno di Dio non è imminente. Perciò è più conveniente leggere queste parole non come una domanda, ma come una frase concessiva: «Anche se egli ha pazienza (makrothymei) con loro». Questa interpretazione è più verosimile: Gesù esorta gli eletti a non spaventarsi per il fatto che Dio tarda a intervenire. Dio ha pazienza, prende tempo, ma al momento opportuno interverrà.
v. 8: Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?. 
Avremo il coraggio di aspettare, di avere pazienza, anche se Dio tarda a risponderci? Gesù conclude rassicurando i suoi discepoli: «Dio farà giustizia con celerità (en tachei)». L’espressione en tachei non significa «con celerità», ma «improvvisamente». In altre parole il ritardo della parusia è una realtà con cui bisogna fare i conti, nella certezza che Dio, dopo aver lungamente pazientato, interverrà quando meno gli uomini se lo aspettano e farà giustizia ai suoi eletti.
La parte finale del v. 8 che chiude con una domanda è una aggiunta posteriore, che ha lo scopo di inculcare la perseveranza nella fede. Il ritardo della parusia, l’ostilità e le persecuzioni crescenti avevano provocato un raffreddamento nella fede dei credenti. La comunità deve quindi ritornare a un genuino atteggiamento di vigilanza, perché Gesù al suo ritorno non la trovi impreparata. È necessario avere molta fede per continuare a resistere e ad agire, malgrado il fatto di non vedere il risultato. Chi aspetta risultati immediati, si lascerà prendere dallo sgomento.

La Parola illumina la vita 
Pregare sempre: come attuo questo comandamento nella mia vita?
Avverto Dio come un Padre che si prede cura anche di me? Con quanta convinzione e pazienza lo invoco?
Pregare senza stancarsi mai: facile a dirlo… e a farlo? Come vivo la mia preghiera? Quali fatiche provo e quali attenzioni metto in campo per superarle?
Quando il Figlio di Dio verrà, ci troverà addormentati, avviliti, riuniti in seduta permanente, oppure svegli, attivi e vigilanti?

Pregare
Alzo gli occhi verso i monti:da dove mi verrà l’aiuto?
Il mio aiuto viene dal Signore:
egli ha fatto cielo e terra.

Non lascerà vacillare il tuo piede,
non si addormenterà il tuo custode.
Non si addormenterà, non prenderà sonno
il custode d’Israele.

Il Signore è il tuo custode,
il Signore è la tua ombra
e sta alla tua destra.

Di giorno non ti colpirà il sole,
né la luna di notte.
Il Signore ti custodirà da ogni male:
egli custodirà la tua vita.

Il Signore ti custodirà quando esci e quando entri,
da ora e per sempre. ( Sal 120)

Contemplare-agire
Guardo alla preghiera come luogo di conversione per far crescere in me Cristo.  




venerdì 13 maggio 2016

PECORA PERDUTA E RITROVATA

Lectio divina su Lc 15,1-7

Invocare
Vieni, o Spirito Santo, vieni come turbine e spazza via dalla Chiesa le scorie del male. Vieni come fuoco e infiamma i cuori dei cristiani tiepidi e distratti e rendili ardenti nel bene come gli apostoli. Vieni, come luce per i ciechi, sostegno per i deboli, fonte viva per gli aridi, guida per gli erranti.
Vieni, vieni. Ascolta le nostre preghiere, opera nuovamente le meraviglie della Pentecoste e nascerà una umanità rinnovata. Amen.

Leggere 
1 Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2 I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3 Ed egli disse loro questa parabola: 4 «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5 Quando l'ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6 va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». 7 Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.

Silenzio meditativo: Il Signore si è sempre ricordato della sua alleanza.

Capire
Siamo nel contesto del viaggio verso Gerusalemme e quindi Luca ha inserito tre parabole come una catechesi fondamentale per mostrare l'insegnamento di Gesù sulla misericordia e l'accoglienza dei peccatori.
Il vangelo che meditiamo riporta la prima delle tre parabole che hanno in comune la stessa parola. Si tratta di tre cose perdute: la pecora perduta (Lc 15,3-7), la moneta perduta (Lc 15,8-10), il figlio perduto (Lc 15.11-32). Le tre parabole sono dirette ai farisei ed ai dottori della legge che criticavano Gesù (Lc 15,1-3). Oggi, sono dirette al fariseo e al dottore della legge che c’è in ognuno di noi.

Meditare
vv. 1-2: Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo
Due atteggiamenti balzano subito alla nostra attenzione, due modalità di porsi davanti a Gesù. I pubblicani e i peccatori "ascoltano" la parola di Gesù, manifestando così un desiderio di salvezza. I farisei e gli scribi, invece, mormorano, svelando ostinazione e rifiuto. Nei versetti, viene sottolineata la totalità; nessuno degli esclusi è escluso; «per ascoltarlo» tutti i peccatori sono ammessi come uditori della gloria di Dio. L’ascolto nel vangelo di Luca è l’atteggiamento del credente. 
Luca colloca questa parabola in un contesto ben preciso: la critica di scribi e farisei all'atteggiamento che Gesù assume nei confronti di pubblicani e peccatori. Gli scribi e i farisei non riescono ad accettare il comportamento di Gesù che mangia e beve con i peccatori, con peccatori pubblici, che non solo hanno fatto qualche peccato, ma sono in una condizione permanente di peccato. La condivisione del pasto esprime una comunione, e siccome Gesù è un maestro e non appartiene alla razza dei peccatori, questa commistione di sacro e di profano, di giusto e di peccatore crea problema agli scribi e ai farisei.
Farisei e scribi mormoravano. 
Nella Bibbia questo verbo è il verbo della contestazione di Dio e del rifiuto del suo modo di dare salvezza. Ricordiamo nell'esodo: “Perché ci hai fatto uscire dall’Egitto?” (Es 17,3); questo è il verbo che percorre i libri biblici che parlano di Israele nel deserto e della ribellione a Dio e ai suoi doni. È il verbo con cui l’uomo pretende di suggerire a Dio come dovrebbe comportarsi con l’uomo e come dovrebbe dargli la salvezza o il castigo.
Per costoro, farisei e scribi, i pubblicani e i peccatori sono persone ormai «perdute»: su di loro incombe il giudizio di Dio, e l’accoglienza calorosa che essi ricevono da Gesù è inspiegabile e contro ogni logica. 
v. 3: Ed egli disse loro questa parabola
L'evangelista introduce dicendo: "questa parabola", ma poi ne seguono tre. Non abbiamo altre introduzioni. Forse Luca si è sbagliato nell'usare il singolare? Possiamo dedurre che l'Evangelista abbia voluto lasciare una indicazione, perché, sì tre parabole, ma un unico messaggio, unica parabola.
v. 4: Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una
La scena della parabola è pastorale, ma contiene una chiave di volta: la vita dell'uomo. Gesù fa un gioco di proporzioni, di numeri per esprimere il fascino della persona, la domanda di senso profondo che ha in se. In questo contesto l'ama proprio nel momento in cui lo smarrimento rischia di gettare nel nulla la sua esistenza.
Non basta una vita per capire la grandezza dell’uomo davanti a Dio. 
Qui gioca il cuore del pastore che pone il suo sguardo sulla pecora mancante, la sua assenza per lui è un dolore irreparabile.
lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova
Tutto l’Antico Testamento è permeato da questo camminare di Dio alla ricerca dell’uomo. Un camminare che ha un nome: la misericordia.
Al pastore non gli basta la presenza delle novantanove; decide perdersi lui anziché perderne una. Questa sua scelta è accompagnata da due verbi: “lascia” e “va dietro” due decisioni apparentemente contrastanti, ma fortemente legate nella luce dell’amore. E' il folle amore di Dio. Le novantanove pecore, in fondo, sono i giusti, esortati a riconoscersi nella pecora smarrita. Infatti vagano ancora nel deserto. Quelle pecore, che non si ritengono perdute, staranno nel deserto fino a quando scopriranno il loro male: la mancanza di misericordia. Allora incontreranno il medico che non è venuto per i sani ma per i malati. 
vv. 5-6: Quando l'ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle 
Era usanza del pastore, che alla pecora smarrita spezzasse la gamba, perché imparasse a non smarrirsi. Questo pastore invece non rompe la gamba, ma se la carica sulle spalle.
L'amore trionfa nel ritrovare l’uomo e rivela il volto di Dio contemplato nel volto di Gesù, un Dio che di sua iniziativa, mosso da null'altro che da un folle amore, esce in Gesù dalla sua distanza per dire ai distanti da lui che egli è semplicemente innamorato di loro, e che la loro vicinanza lo rende felice.
va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta».
Luca è l’evangelista della gioia ed invita a gioire. Quest'invito stupisce e stupisce ancor più perché rivolto non da chi è tornato alla vita, ma da Colui che nel ritrovare ci rivela le ragioni di questa vita. 
Giunge a casa solo l’unica pecora perduta e ritrovata. Le altre novantanove restano fuori, come il fratello maggiore nella parabola del figlio prodigo.
Gli amici, i vicini sono i giusti, i primi chiamati al banchetto, che hanno rifiutato. Sono i farisei e gli scribi che si distanziano da chi è proteso ad accogliere tutti i peccatori. Ai primi invitati, che nella loro sufficienza, si sono autoesclusi, il Signore dice: “apri la tua bocca, la voglio riempire” (Sal 81,11).
v. 7: Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Il versetto fa il passaggio da perduta a convertita. In realtà la pecora non si è convertita, è stata semplicemente ritrovata, proprio perché perduta, ritrovata da colui che ha avuto amore per esse.
I novantanove giusti sono coloro che stanno ancora fuggendo da Dio come fede Adamo. Chiusi nel proprio io e gonfi di morte sono fuori dall’Eden.
Il perdono è una festa. Il ciclo è sempre in attesa. Non sarebbe un’avventura la nostra esistenza cristiana 
senza questi sentieri di luce.

La Parola illumina la vita
Quale è la mia situazione davanti a Dio? Mi sento un giusto o un peccatore?
Personalmente, andrei dietro la pecora perduta?
Studio i mezzi e invento ogni possibilità per riconquistare il dono dell’amicizia?
Rendo visibile lo stile di Dio come Gesù ha manifestato e attuato?

Pregare
Cercate il Signore e la sua potenza,
ricercate sempre il suo volto.
Ricordate le meraviglie che ha compiuto,
i suoi prodigi e i giudizi della sua bocca.

Voi, stirpe di Abramo, suo servo,
figli di Giacobbe, suo eletto.
È lui il Signore, nostro Dio:
su tutta la terra i suoi giudizi.

Si è sempre ricordato della sua alleanza,
parola data per mille generazioni,
dell'alleanza stabilita con Abramo
e del suo giuramento a Isacco. (Sal 104)


mercoledì 30 marzo 2016

IL RICCO E IL POVERO LAZZARO

Lectio divina su Lc 16,19-31

Invocare
O Dio, tu chiami per nome i tuoi poveri, mentre non ha nome il ricco epulone; stabilisci con giustizia la sorte di tutti gli oppressi, poni fine all’orgia degli spensierati, e fa’ che aderiamo in tempo alla tua Parola, per credere che il tuo Cristo è risorto dai morti e ci accoglierà nel tuo regno. Per Cristo nostro Signore. Amen.    

In ascolto della Parola (Leggere)
19C'era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni gior­no si dava a lauti banchetti. 20Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, 21bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. 22Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 23Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. 24Allora gridando disse: "Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma". 25Ma Abramo rispo­se: "Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. 26Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi". 27E quello replicò: "Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, 28perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, per­ché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento". 29Ma Abramo rispose: "Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro". 30E lui replicò: "No, padre Abramo, ma se dai morti qual­cuno andrà da loro, si convertiranno". 31Abramo rispose: "Se non ascoltano Mosè e i Pro­feti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti"».

Silenzio meditativo lasciando risuonare nel cuore la Parola di Dio

Dentro il Testo
Con questa domenica terminiamo la lettura del capitolo 16, dedicato al problema dell’uso della ricchezza. Gesù sta parlando agli amanti del denaro. Si tratta di un racconto per esempi, che diventa poi un racconto di insegnamento.
Il racconto ha dei paralleli significativi in un racconto egiziano e nella tradizione rabbinica. Al v. 14 Lc segnala che “i farisei, che erano attaccati al denaro (philárgyroi: amanti del denaro), ascoltavano tutte queste cose e si beffavano di lui”. “Essi, rappresentati dal ricco, protagonista di questa parabola, si ritengono giusti perché osservano per filo e per segno tutto le regole della legge” (Santi Grasso), tuttavia non si prendono cura dei poveri e questo motiva la loro condanna. Gesù aveva sollecitato ad invitare a tavola i poveri e i derelitti (Lc 14,13.21).
La parabola si presenta come l’antitesi di quella dell’amministratore infedele (Lc 16,1-9). Per Luca la ricchezza porta all’indifferenza verso le esigenze di Dio e di conseguenza verso chi sta nel bisogno. La parabola non intende descrivere l’aldilà né lo stato intermedio tra la morte e l’ultimo giudizio e neppure affermare l’esistenza o meno del purgatorio. Vuole piuttosto dire che il destino di ognuno si gioca interamente in questa vita terrena.
L’insegnamento globale corrisponde bene al pensiero dell’evangelista sulla ricchezza e chi la possiede: l’indifferenza alle esigenze di Dio, e la conseguente indifferenza per chi sta nel bisogno. Le sofferenze del ricco nell’Ade lo puniscono non per la sua ricchezza come tale, ma perché, sordo all’insegnamento di Mosè e dei Profeti, non ha capito l’urgenza della conversione. Interamente occupato dai piaceri dell’esistenza, ha dimenticato la vita futura, ha trascurato il povero che era alla sua porta, ha misconosciuto Dio.

Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 19: C'era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti.
La parabola inizia come quella dell’amministratore infedele (cfr. 16,1-13): C’era un uomo ricco. Quest’uomo dimostra la sua ricchezza portando abiti preziosi (cfr. 1Mac 8,14; Gen 20,31) e questo gli da’ un posto d’onore in mezzo alla società. Quest’uomo è povero interiormente e la sua ricchezza serve a mascherare questa sua povertà.
Anche quest’uomo ricco Luca lo presenta senza nome, quasi a mettere il nostro di nome in particolare, quasi a ricordare i nome degli operatori di iniquità (cfr. Mt 7,23).
Il nome nella cultura ebraica e in ogni cultura rappresenta l'identità. Il tuo nome sei tu. Il ricco non ha identità, non ha consistenza, è "niente", vacuo, sabbia. Ha sviluppato tutto fuori e niente dentro. Il piacevole approfittarsi della ricchezza nella mancanza di misericordia è la base della sua rovina.
Il lauto banchetto quotidiano di cui si parla dimostra questa sua povertà interiore. Egli si riempie la pancia a più non posso e fare ogni giorno festa è diventato il suo stile di vita. Infatti, questo ricco può dire di sé ciò che Gesù pone sulla bocca del proprietario di campi di frumento, quando questi andava sognando il suo avvenire: “riposati, mangia, bevi e goditela” (Mt 12,19). Qui, a differenza dell’amministratore infedele, non si parla né di disonestà, né di dissolutezza.
v. 20: Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe
Il secondo personaggio è povero ma possiede una identità, un nome: Lazzaro, forma greca del nome ebraico/aramaico Eleazar, che significa colui che Dio soccorre, oppure Dio aiuta. Lazzaro è la figura opposta al ricco in modo contrastante. L’evangelista da’ un nome al povero per suggerire che egli aveva un’identità presso Dio.
Lazzaro giaceva presso il portone della casa del ricco: è il posto del mendicante impotente, come la tavola è il posto del ricco. Questo povero era coperto di piaghe. Nella mentalità del tempo, tra le molteplici maledizioni di Dio per chi trasgredisce la legge, ci stavano quelle delle piaghe. Lazzaro, per i farisei, è un peccatore, un maledetto da Dio e in quanto tale è un impuro.
Nonostante questo modo di pensare, Lazzaro è anche uno di quei poveri che attendono la loro consolazione da Dio, il difensore dei poveri, appartiene alla categoria di persone che Gesù proclama beate.
v. 21: bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe
Lazzaro è affamato e non ha di che sfamarsi. Luca riprende l’espressione usata per il figliol prodigo (Lc 15,16). “Ciò che cadeva”. Probabilmente il riferimento è alle molliche di pane che servivano per pulirsi le mani. Lazzaro non poteva neanche servirsi di questi pezzetti di pane che venivano gettati sotto la tavola e mangiati dai cani.
I cani erano ritenuti un animale impuro. Quindi con una persona ritenuta impura, non potevano che starci gli impuri: i cani. Solo i cani si degnano di vederlo.
Per una certa mentalità l’indifferenza del ricco è giudicata normale: la situazione di contrasto tra i due personaggi corrisponde a un certo ordine della giustizia divina che dà abbondanza al pio e miseria al peccatore. Ma già Giobbe gridava contro questa visione.
v. 22: Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto.
Qui abbiamo il crocevia della parabola. Al momento della morte la situazione è rovesciata. Sia per il ricco che per il povero viene usato il medesimo verbo: morì. La morte accomuna i due personaggi. L’unica cosa che si nota è che il ricco viene sepolto, mentre il povero fu condotto accanto ad Abramo.
La rappresentazione del defunto ha il sapore della cosmologia e mentalità del tempo. Possiamo cogliere in Luca un anticipo della funzione escatologica degli angeli di radunare gli eletti al momento della morte individuale.
L’espressione “nel seno di Abramo” si può interpretare secondo la formula biblica: “andare presso i padri” (Gen 25,8; 35,28), con un’allusione adesso al banchetto celeste, nel senso di ricevere il posto d’onore vicino ad Abramo in tale banchetto (cfr. Lc 13,28; Mt 8,11; Gv 13,23).
Del ricco è detto che è semplicemente sepolto.
v. 23: Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Anche se secondo il pensiero del tempo è impreciso questo luogo, possiamo descriverlo come un luogo di tenebre e di ossa inaridite come direbbe il profeta Ezechiele (cfr. Ez 37,1-14).
Abramo si trova anche lui nell’Ade, ma in un compartimento separato, oppure forse in un altro luogo che non è più lo sheol.
Non si può sapere con certezza: le rappresentazioni giudaiche dell’aldilà non sono uniformi. Il ricco si trova comunque in un luogo di tormenti, ma questa volta si accorge del povero Lazzaro insieme ad Abramo. La rappresentazione è semplicistica, serve a dimostrare la condizione rovesciata tra il ricco e il povero, a rendere possibile e a preparare la scena successiva del dialogo.
v. 24: Allora gridando disse: "Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma".
Inizia il dialogo. Anzitutto riconosce una discendenza con Abramo (lo chiama padre), ma l’essere della sua stirpe non giova a nulla (cfr. Lc 3,8; Gv 8,39). Qui i verbi usati sono all’imperativo e di conseguenza appare che non ci sia un cambiamento ma un ordine.
Quest’ordine consiste nel chiedere l’aiuto di Lazzaro: i due personaggi della parabola devono incontrarsi anche dopo la morte, ma perché tutto torni a favore del ricco.
Purtroppo il ricco dimentica che la posizione è rovesciata rispetto a quella avuta sulla terra. Ora è Lazzaro a essere a capotavola.
v. 25: Ma Abramo rispose: Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti.
Si legge chiaramente qui l’intervento di Luca. È la conclusione della prima parte del racconto. Questo versetto può essere considerato l’applicazione del “guai” di Lc 6,24.
Abramo chiama il ricco “figlio”, lo riconosce come membro della sua discendenza: ma questo privilegio non serve a cambiarne la sorte eterna. Questa sorte è formulata secondo la dottrina della retribuzione in senso stretto, come nelle beatitudini e nei “guai” di Lc 6,20ss: chi è ricco in questa vita viene tormentato nell’altra, e viceversa. Diversamente da come pensavano i farisei.
Abramo non solo lo chiama figlio, ma lo invita a “fare memoria” dei propri gesti, delle proprie scelte, a ricordarsi di chi è Dio nella propria vita (cfr. Dt 7,18).
Il povero Lazzaro non si è mascherato con abiti lussuosi, da potente, si è presentato così come era, con i suoi mali, lasciandosi avvolgere dal mistero dell’amore di Dio.
v. 26: Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi".
Tra i morti giusti e quelli empi la comunicazione non è più possibile e quindi la sorte del ricco è irreversibile: Lazzaro non può più aiutarlo. Questa verità è resa con l’immagine del “grande abisso” fissato da Dio come limite invalicabile in un senso e nell’altro. Questo apre al resto del dialogo.
vv. 27-28: E quello replicò: "Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento".
Con questa seconda parte il racconto cambia direzione. Di nuovo il ricco si rivolge ad Abramo chiamandolo padre, ma per usare la religione a suo favore: Abramo deve ascoltare la richiesta del ricco: l’invio di Lazzaro presso i fratelli ancora vivi a casa del padre. Non è il caso di commuoversi per il disinteresse di un dannato per la propria persona e la preoccupazione per gli altri: fa parte della tecnica narrativa per riportare il discorso sulla terra e introdurre l’argomento dei fratelli. Lo scopo della nuova missione di Lazzaro sarebbe quello di testimoniare per evitare ai fratelli una sorte simile a quella del ricco.
v. 29: Ma Abramo rispose: "Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro".
Questo versetto costituisce il fulcro della parabola. Il ricco subisce un secondo rifiuto. Positivamente viene affermata la permanente validità della Legge: "Nel mio popolo nessuno sia bisognoso" (cfr. Dt 15,4-11; 24,14).
In Mosè e nei profeti, cioè nelle Sacre Scritture, Dio ci ha dato la sua parola, la quale mira ad ammonirci, illuminarci e farci da guida (2Pt 1,19), affinché non abbiamo a finire nel luogo di tenebre e di morte (cfr. Lc 1,79). La Scrittura contiene l’insegnamento necessario e sufficiente per conoscere la volontà di Dio e quindi per entrare nel “seno di Abramo”. Gesù è il compimento dell’AT (cfr. Lc 24,27.44).
vv. 30-31: E lui replicò: "No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno". Quante volte anche noi come il ricco usiamo quel “ma se…”: è la tentazione di pensare che un miracolo sia più conveniente dell’ascolto della Parola di Dio. I dottori della legge e i farisei sono coloro che chiedono un segno, un miracolo, ma nessun segno è stato dato loro se non quello di Giona (cfr. Mt 12,39).
Qui abbiamo ancora un netto rifiuto della Parola, ma Luca ama ricordare ai suoi lettori il verbo “convertire” e l’allusione alla resurrezione di Gesù.
Abramo rispose: "Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti".
Abramo riprende i termini dei vv. 29-30 per formulare l’ultimo rifiuto. La risposta è dura ma la regola è chiara. Il ricco deve imparare a dirottare la propria vita costruendola sul cuore di Dio facendo la sua volontà. Frutto genuino di questa conversione è la pratica dell’amore del prossimo, il saper spezzare il pane con l’affamato, a saperlo condividere (cfr. Is 58,7-10; Tb 4,15-16). Chi non ha mai spezzato il pane, chi non ha mai condiviso il pane con gli altri non farà mai l'esperienza della risurrezione, del Cristo risorto.
Il messaggio è chiaro: i miracoli possono impressionare ma non necessariamente convertire. La conversione implica l’apertura del cuore a Dio, l’attenzione a scoprire la Sua presenza nella Sua parola: il bisogno di segni straordinari è superfluo. Per Luca, quest’ultima parte della parabola costituisce anche una risposta alla domanda su come evitare il destino del ricco: convertirsi! Aprirsi a Dio che parla nella Scrittura e obbedire al suo insegnamento.
Il paradiso e l'inferno di questa vita dipendono da noi. Ognuno si crea il proprio paradiso e il proprio inferno.

Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato

La Parola illumina la vita e la interpella
Come considero le mie ricchezze? Per cosa spendo i miei soldi?
Qual è il mio atteggiamento verso i poveri che bussano alla mia porta? Mi sono mai impegnato per alleviare le loro sofferenze?
Cosa significa per me “ascoltare Mosè e i Profeti”? Ci sono persone che come il ricco della parabola, attende miracoli per poter credere in Dio. Ma Dio chiede di credere in Mosè e nei profeti. Ed io, verso che lato tende il mio cuore: verso il miracolo o verso la Parola di Dio?
Quale è la mia idea di aldilà?

Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.

Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione. (Sal 145).

L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
“Fratelli, conoscendo la felicità di Lazzaro e la pena del ricco, datevi da fare, cercate degli intermediari e fate in modo che i poveri siano vostri avvocati nel giorno del giudizio. Avete ora molti Lazzari; stanno innanzi alla vostra porta e hanno bisogno di ciò che ogni giorno, dopo che voi vi siete saziati, cade dalla vostra mensa. Le parole del libro sacro ci devono disporre ad osservare i precetti della pietà. Se lo cerchiamo, ogni giorno troviamo un Lazzaro; ogni giorno, anche senza cercarlo, vediamo un Lazzaro”. (Gregorio Magno).

martedì 8 marzo 2016

IL PADRE MISERICORDIOSO (Il Figliol prodigo)

Lectio divina su Lc 15,11-32


Invocare
Spirito di verità, inviatoci da Gesù per guidarci alla verità tutta intera, apri la nostra mente all'intelligenza delle Scritture. Fa’ che possiamo leggere la tua Parola liberi dai pregiudizi, perché possiamo meditare il tuo annuncio nella sua integrità e non selettivamente. Fa’ che impariamo ad ascoltare con cuore buono e perfetto la Parola che Dio ci rivolge nella vita e nella Scrittura, per custodirla e produrre frutto con la nostra perseveranza nella vita di ogni giorno con i tuoi stessi sentimenti e la tua stessa misericordia. Tu che vivi con il Padre e ci doni l’Amore. Amen.

Leggere
11 Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12 Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13 Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14 Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16 Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17 Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19 non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». 20 Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21 Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». 22 Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. 23 Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.
25 Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26 chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27 Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». 28 Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29 Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30 Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». 31 Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32 ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»».

Silenzio meditativo: Gustate e vedete com’è buono il Signore.

Capire
Il capitolo 15 di Luca è un canto di gioia che celebra la felicità di chi ha ritrovato ciò che aveva smarrito. Allo stesso modo, il ritorno alla comunità di un fratello che si «converte» è festa di tutta la chiesa. E ancor più quale sarà la gioia del Padre per il ritorno di noi, suoi figli?
La struttura di Lc 15 è semplice. Dopo l'introduzione (vv. 1-3), le due brevi parabole del pastore che ritrova la sua pecora (vv. 4-7) e della massaia che ritrova la sua dramma (vv. 8-10) sono perfettamente simmetriche e inseparabili l'una dall'altra. La terza parabola, molto più sviluppata (vv. 11-32), illustra l'insegnamento delle parabole precedenti: è la storia di un padre che ritrova suo figlio; e questa viene introdotta semplicemente con "Disse poi”.
Inoltre tutto il capitolo è guidato come da un filo conduttore dai verbi "perdere-perduto"', "ritrovare-ritrovato"; " rallegrarsi-far festa". Sono ripetuti rispettivamente sei - sette volte.
I vv. 7 e 10 con un efficace "Così vi dico..." dichiarano il messaggio delle due parabole: la gioia del pastore e della massaia sono pallido simbolo della gioia che "ci sarà in cielo" (v. 7), "davanti agli angeli di Dio" (v. 10) "per un solo peccatore che si converte" (id.)».
La nostra pericope evangelica (che volgarmente conosciamo come la parabola del figlio prodigo), in Luca non assume il tono di un'esortazione, ma è contenuto dietro un'apologia, per presentare la misericordia di Dio verso i peccatori. Essa è un valore che possiamo capire solo se siamo sedotti dall'agire di Dio, sedotti dal comportamento del cuore di Dio.
Con questo brano evangelico, Gesù definisce i lineamenti autentici di Dio: la paternità e maternità di Dio. Ecco delineata in questa frase tutta la nostra spiritualità di cristiani, l’essenza del nostro essere "figli di Dio" (Gv 1,12).
Con questa parabola, attraverso la Parola del Figlio conosciamo il Padre. E in definitiva è proprio questa la missione del Figlio, far conoscere il Padre. Questa è la vita eterna: “che conoscano te, l'unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3).

Meditare
v. 11: Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.
La parabola inizia con tre personaggi: un uomo e due figli. L’uomo qui è Dio-Amore: è padre e madre messo insieme (vedi: Rembrandt, “Il ritorno del Figliol prodigo”, dipinto del 1669). È la storia di sempre. È Dio, che nel corso della lettura si rivelerà insieme padre e madre, legge e amore. I due figli indicano la totalità degli uomini, sia peccatori che giusti, per lui siamo sempre e solo figli, perché Dio ha “compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento” (Sap 11,23).
v. 12: Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta».
C'è una giovinezza che manifesta una certa agitazione, che manifesta un atteggiamento molto frequente anche oggi, come se il Padre fosse morto. È il peccato di pretendere di essere autosufficienti.
Ed egli divise tra loro le sue sostanze.
Il Padre è in assoluto silenzio. Rimane sempre Padre. Si “annulla” di fronte alla tua scelta e divide le sue sostanze (alcune norme regolavano il diritto di successione alla morte del padre, о la spartizione dei beni mentre era ancora in vita il padre: cfr. Dt 21,17; Sir 33,20-24), non è un antagonista.
Dividere le sostanze è già un atto di misericordia pretendere tanto e per di più con i1 Padre ancora in vita, è un palese atto di ribellione, impensabile per la cultura orientale. Qui il figlio si dimostra già un “avventato” uno “scapestrato”. E la legge era molto dura nel reprimere un tale atteggiamento (cfr. Dt 21,18-21).
vv. 13-16: Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto.
Questo figlio, che non sopporta la presenza del padre va in un paese lontano, cioè in un “paese pagano”. Lontano vuole dire: che non ci arrivi proprio niente di suo padre, né una notizia, né un’ombra, né un richiamo, ma in cui possa effettivamente fare quello che vuole; e lo fa in quel modo che il Vangelo dice: “vivendo da dissoluto”, fino “a trovarsi nel bisogno”.
Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci.
La condizione del giovane diventa così grave al punto che è costretto a “mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione”, e “a pascolare i porci”. Il porco è un animale immondo, non viene allevato da ebrei; andare a pascolare i porci deve essere il massimo del degrado, peggio di così non poteva finire. E la parabola vuole dire questo: il figlio scende al punto più basso della sua vita
Questo vuole dire: da figlio è diventato servo; l’autonomia che lui cercava non l’ha in realtà conquistata. E questo è un tema costante della riflessione profetica: quando Israele si illude di trovare la sua libertà negli idoli, in realtà trova semplicemente la schiavitù.
In Geremia si ricorda l’esperienza di Israele così descritta: “Poiché già da tempo hai infranto il tuo giogo, hai spezzato i tuoi legami e hai detto: Io non servirò!” (Ger 2,20a). Il “giogo”, i legami, sono evidentemente quelli della legge di Dio, quelli dell’Alleanza, quindi queste parole sono affermazioni di autonomia: “io non ho legge, io sono legge a me stesso”. “Infatti sopra ogni colle elevato e sotto ogni albero verde ti sei prostituita” (Ger 2,22b). La libertà per Israele, l’emancipazione dai legami della legge, è essenzialmente questo: è la prostituzione della idolatria.
Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla.
La fame ha creato un vuoto fuori e dentro di lui. Gli fa capire che fece una scelta sbagliata. Che non è stato capace di valutare le cose. Questo è l'inizio di un cammino verso la casa del Padre. Dice un antico detto ebraico: «Quando gli israeliti hanno bisogno di mangiare carrube, è la volta che si convertono».
v. 17: Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!
Si noti, come in questo monologo, Luca non esprime grandi sentimenti di pentimento; è una conversione a sé, più che al Padre, intuisce il vero proprio interesse: “salariati...di mio padre”. Lo considera e lo chiama padre, anche se non considera sé come figlio. Instaura il paragone con i salariati. Ha ancora una falsa immagine del Padre.  
Questo ritornare in sé non è altro che l’esperienza del peccato a cui si è consegnato e che ne è diventato padrone, il proprio dio.
vv. 18-19: Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te;
Il figlio si è allontanato da casa perché pensava che suo padre fosse un tiranno; ritorna a casa con la speranza che suo padre sia un padrone, lo tratti come un padrone tratta i suoi servi.
La conversione del figlio in realtà non è una grande conversione, perché non ritorna per amore di suo padre, ma ritorna per fame, ritorna con il desiderio di saziarsi, di potere vivere in un modo meno disagiato di quello attuale. Non gli dispiace di aver fatto soffrire suo padre.
non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati».
La conversione non è un percorso facile, anzi è impossibile che l'uomo ritorni a Dio con le sue sole forze interiori; del resto, senza che noi lo desideriamo, Dio non ci converte a sé: perciò è indispensabile che il nostro desiderio e il desiderio di Dio si incontrino; poi l'amore del Padre farà il resto.
Sulla via del ritorno il giovane figlio aveva preparato mentalmente un discorso, nel quale, con atteggiamento umile, si riconosceva colpevole; forse anche noi pentiti, sulla via del ritorno a Dio, abbiamo preparato un discorso ma al Padre le nostre parole non interessano: come nella parabola, egli ha fretta di far festa, ha fretta di tenerci stretti nel suo abbraccio e di riconoscersi nel nostro volto, un volto di figlio che ha i tratti del volto del Padre.
v. 20: Si alzò e tornò da suo padre.
Se fin d'ora abbiamo parlato del figlio adesso subentra il padre in una scena travolgente. Il padre qui è ben altro, non aspetta al varco l’indegno per rinfacciarli una colpa senza scuse, previene ogni suo atto di pentimento. Per capire, l'evangelista usa per noi dei verbi: i verbi dell'amore.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide
Per quanto lontano il Padre lo vede sempre; nessuna oscurità e tenebre può sottrarlo alla sua vista (Sal 139,11). L’occhio è l’organo del cuore: gli porta l’oggetto del suo desiderio. Lo sguardo di Dio verso il peccatore è tenero e benevolo come quello di una madre verso il figlio malato (cfr. Is 49,14-16; Ger 31,20; Sal 27,10; Os 11,8).
ebbe compassione
La compassione è il verbo che definisce la figura del padre. In lui “gli si sono mosse dentro le viscere”. Letteralmente “fu colpito alle viscere”. L'evangelista Luca attribuisce a questo padre i sentimenti di una madre, e si collega cosi alla tradizione biblica, dove Dio ha sovente atteggiamenti materni verso Israele.
In questo verbo abbiamo l'aspetto materno della paternità di Dio. È la qualità di quel Dio che è misericordia. In Lc 6,36 Dio ci è presentato come “padre misericordioso”, cioè insieme come padre e come madre (Luca usa l'aggettivo “oiktìrmon” che traduce l'ebraico “rahamin”, che indica il ventre, l'utero).
gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
C'è una corsa del padre che termina in uno slancio che lo fa letteralmente “cadere addosso” al figlio. Anche Giuseppe, venduto come schiavo dai fratelli, si getta sul collo di Israele (Gen 46,29). Questo gettarsi al collo interrompe l'idea del figlio. Il padre è stanco di avere dei servi invece che dei figli. Almeno il lontano che torna gli sia figlio. Il peccato dell'uomo è di essere schiavo invece che figlio di Dio. Segno di questo è il “bacio”. Segno del perdono (cfr. 2Sam 14,33).
Questi sono gesti che nell'Antico Testamento indicano il perdono e la riconciliazione il segno che la comunione d’amore che c’era prima, è stata immediatamente ristabilita.
vv. 21-23: Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio».
È un fardello che si aggiunge al fardello già esistente nella vita del figlio: essere figlio non è questione di dignità o di merito; è un dato di fatto. Il padre può essere libero nel mettere al mondo il figlio, ma nell’essere figlio non c’è libertà; non si sceglie né di nascere né da chi. Il figlio minore non ha ancora capito che il Padre è amore necessario e gratuito; pensa non avendola meritata, di rinunciare alla sua paternità.
La conversione non è diventare "degni" o almeno "migliori" per meritare la grazia di Dio; la conversione è accettare Dio come un Padre che ama gratuitamente.
Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi.
Il padre prende subito l’iniziativa: non permette al figlio di terminare la sua confessione; non dice nulla al figlio, ma l’interruzione nella dichiarazione da parte del figlio, indica che l’aspetto importante della parabola, non è la conversione più o meno sentita del figlio, ma piuttosto l’accoglienza e la misericordia del padre.
Il vestito più bello è la veste migliore, quello riservato agli invitati, che è anche l’abito liturgico della cerimonia e il vestito dei salvati. È l’immagine e la somiglianza di Dio, gloria e bellezza originale che riveste l’uomo con la sua dignità con la sua autorità (l'anello al dito) (cfr. Gen 41,42; Est 3,10; 8,2; Gc 2,2). Che gli ridona la figliolanza, gli ridona la libertà di figlio (i sandali ai piedi; lo schiavo non porta sandali).
Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa
Il sacrificio grasso (lett. di grano) immolato, che si "mangia", "facendo festa" è un'allusione all'eucarestia. Per i commentatori questo vitello di grano è l'Agnello immolato per quell'amore che è prima della fondazione del mondo (Gv 17,24).
È l’inizio dell’unica festa che si compie una volta sola per sempre, senza fine.
Questa della gioia di Dio nel perdonare è il nocciolo più originale del messaggio biblico-cristiano. Altri annunciano di Dio la potenza, altri la giustizia, altri l'ordine...: noi cristiani annunciamo che la potenza di Dio è l'amore e la misericordia, che egli sa vincere il male col bene, che Dio è amore e perdono onnipotenti.
v. 24: perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.
Qui abbiamo la motivazione. È il canto alla vita del figlio ritrovato, della relazione nuova, filiale e fraterna. I termini "morte e vita" lasciano intuire che la sua gioia deriva da una relazione che si era spezzata prima e ora è reintegrata in un contesto di libertà. I verbi "perdere e ritrovare" collegano questa parabola alle altre due precedenti nelle quali si parla della pecora e della dramma perduta e poi ritrovate. Anche in queste due parabole compare l’ordine di rallegrarsi e far festa.
vv. 25-27: Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo».
Chi è il figlio maggiore? Nella Bibbia il maggiore è Israele, il primogenito di Dio, figura di ogni giusto ma anche nella vita di tutti i giorni, il figlio maggiore è colui che vive nel giusto o che crede di essere nel giusto e va in cerca dei ripari.
Questo giusto, però, non sa nulla della gioia di Dio, anzi gli è sospetta e per questo indaga minuziosamente, interroga un servo per sapere cosa sta accadendo.
vv. 28-30: Egli si indignò, e non voleva entrare.
L’indignazione del figlio maggiore, è la sua carta d’identità. Egli sipresenta diversamente dal padre, che viene descritto dalla compassione (cfr. Gio 4,3.8-9). Il suo arrabbiarsi è giustificato da un ragionamento che ha una logica stringente, ma il ragionamento suppone che il padre sia un padrone e che i figli siano dei salariati, perché questo è il discorso: “io ti servo da tanti anni (…) non ho mai avuto un capretto”.
Il figlio maggiore ha mantenuto sempre quel rapporto del “do ut des” col Padre; cioè un rapporto da salariato a datore di lavoro, ha sempre ricevuto quello che gli spettava come stipendio, ma niente di più di quello che va al di là del gratuito.
Inoltre, il figlio maggiore qui può essere visto come il rappresentante di una religiosità seria e impegnata ma di scambio, dove Dio è datore di lavoro e l’uomo solo un operaio, per cui ha diritto ad un salario corrispondente. Tutto quello che non entra in questo sistema di scambio economico e preciso, diventa incomprensibile e “non si vuole entrare” nell'amore del Padre.
Suo padre allora uscì a supplicarlo.
Il Padre esce per supplicarlo, per consolarlo. C'è un'azione del Padre che è uguale per tutti. C'è l'azione di Dio che si muove sempre per primo. Dio consolò Israele mediante i profeti, fino al Battista che “consolava ed evangelizzava” (Lc 3,18), chiamando alla conversione.
Ma egli rispose a suo padre
Paziente, quel Padre che non ha ascoltato l’umiliazione penitente del secondogenito, ascolta ora le accuse del primogenito. Il figlio maggiore, nel breve dialogo che ha col padre mostra tutto il dramma della sua chiusura. Si è fatto un’idea del padre e da questa non cambia. Non riconosce il padre come suo padre né il figlio di suo padre come suo fratello.
«Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso».
Il figlio elenca i suoi meriti - “ti servo ... non ho trasgredito” - con l’unica preoccupazione di affermare che non ha mai trasgredito alcun ordine. Non è questo il tipo di rapporto che dobbiamo avere col Padre nella ricerca egoistica del proprio io o interesse (“un capretto”).
È facile puntare il dito: “il figlio tuo”. Il primogenito rifiuta di dare il nome di «fratello» al prodigo ma non gli contesta il nome di «figlio» in rapporto al padre. Di colpo, il padre del figlio indegno non gli sembra più neppure suo padre; parla di lui come di un padrone al cui servizio lavora come schiavo: “Ecco, io ti servo da tanti anni” (come uno schiavo: douléuô. Cfr. v. 29). Se il secondogenito si augurava di divenire, a casa del padre, un servo ben pagato, il primogenito si considera come uno schiavo verso il quale il padrone non ha alcun debito di riconoscenza. La comprensione che egli ha del rapporto padre-figlio non è migliore di quella del fratello.
vv. 31-32: Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo
Il padre cerca di far entrare nella logica dell’amore e della festa colui che è rimasto sempre impigliato nell’orizzonte del puro dovere, della sola osservanza di una religione rigida che esclude qualsiasi sentimento, gioia e festa e soprattutto perdono. Lo chiama: Figlio! E gli manifesta la cosa più importante della religione: “tu hai un padre, tu sei sempre con lui, con questo padre, nel suo cuore, nelle sue attenzioni. Tu non sei uno schiavo come tu ti definisci, ma un figlio che gioisce di tutto ciò che ho e che sono come padre. Vieni, abbracciami, baciami ed entra nella festa del ritrovamento del tuo fratello, nella festa del perdono. Perché, tu hai un fratello, non sei solo e disperato; come hai un padre, una casa, un focolare attorno al quale gioire e fare festa”.
bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato.
Il padre non rinnega il comportamento tenuto nei confronti del secondogenito e riconferma la sua gioia. La sollecitazione all’allegria e alla festa con cui si chiude il racconto, rimanda al finale delle due parabole precedenti in cui si assicura la gioia celeste per il peccatore convertito (Lc 15, 7.10).
La Parola del Padre ci conduce a deciderci a morire ai nostri schemi mentali, alla nostra religione fatta di leggi ed entrare in una religione imperniata sull’amore per cui il padre accoglie il figlio ribelle e il figlio-schiavo. Senza condizioni, perché sono suoi figli e basta.
La parabola non rivela la reazione del figlio maggiore, non dice se è entrato o no a far festa. Volutamente Gesù lascia le cose in sospeso: ricordando che la parabola è rivolta in primo luogo a farisei e scribi, e ad ogni lettore.
A Gesù sta a cuore far intravedere ai suoi ascoltatori di ieri e di oggi, peccatori e presunti giusti, il modo con cui Dio si rapporta alle persone: ogni uomo, anche se peccatore, rimane per Dio sempre un figlio, proprio come succede nella parabola.
La parabola possiamo concluderla così: "Figlio, ritorna anche tu!". E il vangelo non dice se il figlio ascoltò la voce del padre: forse questo silenzio è giustificato dal fatto che la risposta deve essere ancora data!

La Parola illumina la vita
Sono come il figlio maggiore: invidioso dei peccatori che si convertono? Desidero o no entrare alla festa di Dio? Voglio continuare a non capire la mentalità, il cuore di Dio?
Vivo una religiosità da schiavi cioè la religiosità della paura?
Quale rapporto ho con Dio? Quello del salariato o quello della gratuita, dell'amore?
Con quale animo invoco il Padre nella preghiera che Gesù ha insegnato: con la gioia di chi è amato, sempre e comunque amato?
Sono aperto al perdono verso i miei fratelli? Riconosco solo il loro peccato o anche il fatto che Dio li ama incondizionatamente?
Vivo il perdono - soprattutto sacramentale - con il cuore pieno di gioia, "felice come una pasqua"?

Pregare
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.

Magnificate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto
e da ogni mia paura mi ha liberato.

Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce. (Sal 33).

Contemplare-agire
Per imparare ad essere misericordiosi e a non pretendere dagli altri, ripeti spesso e vivi oggi la Parola: “Mi indicherai il sentiero della vita” (Sal 15,11).