mercoledì 15 novembre 2017

I DIECI TALENTI

 Lectio divina su Mt 25,14-30


Invocare
O Dio, che affidi alle mani dell'uomo tutti i beni della creazione e della grazia, fa' che la nostra buona volontà moltiplichi i frutti della tua provvidenza. Aiutaci ad ascoltare la tua voce per essere sempre operosi e vigilanti in attesa del tuo ritorno, nella speranza di sentirci servi buoni e fedeli, ed entrare nella gioia del tuo regno.
Per Cristo nostro Signore. Amen.

Leggere
14Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. 15A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi parti. Subito 16colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. 17Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. 18Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. 19Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. 20Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: "Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque". 21"Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone". 22Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: "Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due". 23"Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone". 24Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: "Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e racco­gli dove non hai sparso. 25Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo". 26Il padrone gli rispose: "Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 27avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse. 28Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 29Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. 30E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti".

Silenzio meditativo ripetendo mentalmente il testo, cercando di ricordare quanto letto o ascoltato

Capire
La “Parabola dei Talenti” fa parte del 5º Sermone della Nuova Legge (24,1 a 25,46) e si colloca tra la parabola delle dieci vergini (25,1-13) e la parabola del giudizio finale (25,31-46).
Queste tre parabole chiariscono il concetto relativo al tempo dell'avvento del Regno. La parabola delle dieci vergini insiste sulla vigilanza: il Regno di Dio può giungere da un momento all'altro.
La parabola dei talenti orienta sulla crescita del Regno: il Regno cresce quando usiamo i doni ricevuti per servire. La parabola del giudizio finale insegna come prendere possesso del Regno: il Regno è accolto, quando accogliamo i piccoli. La parabola delle vergini si conclude con un invito a vegliare. Il versetto seguente (inizio del vangelo di oggi), riprende: “Come infatti”. Ci deve essere un nesso tra le due cose, tra l’invito a vegliare e la parabola così introdotta. Che cosa significa “vegliare”? La parabola precedente conteneva già una risposta: sapersi equipaggiare per un tempo lungo. Ma da essa appariva già chiaro che “vegliare” non è solo stare svegli durante la notte: tutte quelle vergini si sono addormentate e questo non è un fatto che venga censurato. “Come infatti” allora vegliare? Matteo continua a porsi lo stesso problema anche nella parabola dei talenti, e la sua risposta è questa volta che la vigilanza deve ispirare le nostre occupazioni quotidiane.
Il talento originariamente era una misura ovvero, il suo significato era attribuito alla bilancia e a un peso. Successivamente passò ad indicare la moneta. Oggi rimanendo solo il nome, vuole indicare la capacità, le doti migliori. A sviluppare le doti naturali ci spinge già la natura, l'ambizione, la sete di guadagno. A volte, anzi, è necessario tenere a freno questa tendenza a far valere i propri talenti perché essa può diventare facilmente carrierismo, smania di imporsi sugli altri.
Gesù parlandone non intendeva parlare di un obbligo per sviluppare le proprie doti naturali, ma di far fruttare i doni spirituali da lui recati. I talenti di cui parla Gesù sono la parola di Dio, la fede, in una parola il regno da lui annunciato. In questo senso la parabola dei talenti si affianca a quella del seminatore.

Meditare
v. 14: Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio
Ciò che giustifica la consegna dei beni è la partenza per un viaggio. Ci è dato di vivere la ricchezza della misericordia di Dio nella consapevolezza che tutto ciò che ci è dato nasce da quella condizione per cui un uomo è partito per un viaggio.
Nella storia della salvezza ritroviamo alcuni riferimenti a dei viaggi: il viaggio di Abramo (cfr. Gen 11,23-25,10), il viaggio di Mosè (cfr. Es 2-20) con il suo popolo, il viaggio di Gesù a Gerusalemme (cfr. Lc 9,51-18,14). Tutto ciò che siamo non ci deve fare dimenticare che se abbiamo dei doni li abbiamo in virtù di quei viaggi che nella Scrittura sono viaggi soteriologici. In tutto questo ci sta un senso di responsabilità dei cristiani. Il viaggio, deve servire per un maggiore impegno a servire con fedeltà il Signore.
chiamò i suoi servi
Il viaggio del padrone è legato alla chiamata. Sembra rivivere il riposo di Dio al termine della creazione dell’uomo. Egli riposa perché lo ha creato a sua immagine e somiglianza; l’uomo è l’unico a cui può affidare la terra in cui l’ha posto. L’uomo, quindi, è l’amministratore che gode della fiducia di Dio e Dio, ora, può riposarsi.
È nel riposo di Dio che nasce la chiamata e il servizio. In esso esprimiamo in modo sommo ciò che Cristo ha compiuto nel suo viaggio verso Gerusalemme. In fondo, rispetto al viaggio che Gesù ha compiuto, la nostra fedeltà per la nostra condizione di servi è ben poca cosa. Ma è una realtà alla quale il Signore affida un valore immenso se vissuto nella consapevolezza che tutto dovrà essere a lui reso.
e consegnò loro i suoi beni.
L’inizio della vita è la consegna di un patrimonio da parte di Dio a noi. Quel patrimonio non ce lo siamo del tutto meritato ed in fondo non appartiene del tutto a noi, perché della vita non possiamo fare ciò che vogliamo; essa appartiene al Signore ed è un dono che il Signore ci fa.
Il patrimonio qui è descritto in talenti. Un talento corrispondeva a seimila denari ed il denaro che era la retribuzione di un giorno di lavoro.
Un talento erano seimila giornate lavorative.
Gesù usa questa unità di misura per illustrare qualcosa circa la ricchezza che Dio riversa negli uomini.
v. 15: A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi parti.
In questo versetto si nota con chiarezza che la distribuzione non è uguale per tutti. Tuttavia nel Vangelo il Signore non si sofferma su quanti talenti posseggo.
Quei talenti rappresentano una varietà di doni e l’evangelista ne sottolinea le qualità umane legate alla persona: le specifiche capacità che poi saranno sviluppate nel tempo e che si trasformeranno anche in abilità particolari.
Per chi vede la creazione dell’uomo come opera di Dio, non fa la distinzione tra talento e non talento: tutto è un talento.
Non è neppure importante la quantificazione che ci presenta il racconto evangelico; non è questo lo scopo delle parole del vangelo. La questione fondamentale riguarda l’uso dei talenti. Questo è importante. Infatti il modo di usarli è strettamente collegato col modo di intenderli, di concepirli. Il significato che io do ai talenti che posseggo determina l’uso che ne faccio.
Dio ha dotato l’uomo dei Suoi doni, perché dominasse (= amministrasse e facesse ben crescere) il creato (cfr. Gen 1,28), non per dominare (= spadroneggiare) gli altri esseri umani.
Il talento non è dato per prevaricare sul nostro simile; pertanto, dalla quantità di talenti non è lecito sviluppare un senso di superiorità verso il prossimo.
Ciascuno ha una propria dotazione personale datagli direttamente dal creatore. Come cristiani, alla luce di questa parabola ci troviamo davanti ad una vera e propria sfida, la quale, se ci riflettiamo bene, ci impegna più di quanto non pensiamo: quali sono i talenti miei e dell’altro?
secondo le capacità di ciascuno.
Il termine usato è dynamin: che significa: “a ciascuno secondo quanto può fare”. È il talento che mette in condizione le persone di essere valorizzate. Il carisma non si sostituisce alla persona, ma si incarna. In fondo, è il dono di essere figlio che dà al figlio di essere figlio, se così si può dire, applicandolo a Gesù. Il termine dynamis è il termine usato a proposito dell’azione dello Spirito nella Chiesa, la sua potenza. Il dono non si sostituisce alla persona.
La capacità è legata al dono dello Spirito. Ecco allora l’importanza del discernimento dei doni dello Spirito.
vv. 16-17: Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque.
La parola «subito», atteggiamento che assume il primo servo, è molto importante ed ha un valore temporale (indica immediatezza, puntualità), e un valore modale (manifesta l’energia, la decisione, la scioltezza con le quali il servo agisce): ha risposto con prontezza alle attese del padrone. Inoltre, la parola «subito» indica che questo servo agisce coi talenti come avrebbe agito con i propri averi. Non agisce come un servo che si accontenta di eseguire ordini, ma come un servo intelligente che pensa a cosa fare in ogni circostanza per far fruttare i beni del padrone, sapendo che la propria situazione migliorerà se migliora quella del padrone. Più che come un servo, si comporta come un socio, come uno stretto collaboratore del padrone. Questo servo è quasi un alter ego del padrone, però non ne approfitta per arricchirsi alle spalle del padrone. L’iniziativa del servo rende fruttuoso il capitale che gli è stato consegnato e lo raddoppia. Il racconto non specifica come abbia raggiunto questo obiettivo, perché si tratta di un particolare secondario alla dinamica del brano. Basta sapere che ha messo a frutto intelligenza e buona volontà, dinamismo e intraprendenza, partecipando in modo personale al raggiungimento del nuovo capitale.
Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due.
Allo stesso modo anche il secondo servo: ha ricevuto di meno, ma anche lui si mobilita immediatamente e riesce a raddoppiare il capitale iniziale, raggiungendo lo stesso obiettivo del primo. Il testo non indica nemmeno per questo servo come ha fatto fruttare i talenti e ha conseguito il guadagno.
v. 18: Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Ben diversa è la posizione presa dal terzo servo che costituisce la variante del racconto: con lui il meccanismo si inceppa e non riesce a raddoppiare il capitale semplicemente perché non ci ha nemmeno provato. Ha seguito una strada che può sembrare apparentemente logica: quella di conservare il denaro. Ma così ha espresso un impegno minimale o addirittura un disimpegno.
A sua discolpa ci sarebbe un detto rabbinico: «Il denaro non può essere custodito con sicurezza se non sotto terra». Ma il confronto con gli altri due servi blocca ogni tentativo di giustificazione del terzo. Rappresenta l’uomo ingessato, statico, in opposizione al dinamismo dei primi due. Sono in contrasto due atteggiamenti: il fare e il non fare.
Possiamo osservare che il servo non ha preso il talento come un dono, come un atto di fiducia del padrone; ha considerato quel talento come un peso che il padrone gli metteva sulle spalle, una responsabilità pesante da portare e che non avrebbe prodotto per lui nessun vantaggio, perché quel talento era del padrone e se lo moltiplicava, lo moltiplicava per lui. Che interesse ha a fare questo? Nessuno. Allora questo servo diventa fannullone e non si impegna perché non gli interessa fare piacere al padrone; è convinto che il Signore, il padrone, quel talento non glielo ha dato per amore, glielo ha dato per interesse. E si può vedere la vita anche così. Si può vedere la vita come un atto di fiducia nei nostri confronti, ma si può vedere anche solo come un peso che ci è stato messo sulle spalle e nel quale non c’è niente da guadagnare; semplicemente siamo costretti a sopportare una sofferenza che non ci piace e che non ha risultati.
v. 19: Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.
È il momento della verifica finale, un momento inevitabile. Il regolamento avviene con Colui che ha donato. Ci si deve aspettare il ritorno di Colui che ha donato. L’incontro è con Chi ama. Bisogna trovarsi in comunione con Chi ha donato, con Colui che ama.
L’uomo in ogni istante si trova sempre al cospetto di Dio anche se in noi la “percezione” di questa presenza non è sempre viva. Il confronto però arriva e saremo faccia a faccia. Ciascuno, quindi, prende piena coscienza di cosa è, di come ha vissuto, delle motivazioni più profonde, di come ha sfruttato le possibilità della vita, delle sue azioni, insomma di come ha trafficato i suoi talenti.
vv. 20-23: Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: "Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque". "Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone". Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: "Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due". "Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone".
In questi versetti inizia un dialogo particolare con i servi. Viene messo in luce quanto è stato fatto e le motivazioni che hanno spinto i servi (i primi due) ad agire. Entrambi dicono la stessa cosa, a parte le cifre dei talenti ricevuti in consegna e di quelli guadagnati. Viviamo del dono di Dio e della fiducia di Dio; siamo chiamati a rispondere a Dio con la dedizione fedele. Non basta non fare il male per compiere il senso della nostra esistenza: bisogna piuttosto trasformare quello che abbiamo ricevuto secondo i progetti di Dio.
Questi due servi si rivolgono al padrone, lo chiamano «Signore», riconoscono in lui una signoria. Usano i verbi «mi hai consegnato» e «ho guadagnato»: il primo verbo esprime la fiducia del padrone e il secondo verbo esprime la loro risposta fedele e laboriosa. Il rischio e la fiducia del padrone hanno avuto esito positivo. Per entrambi risuona lo stesso compiacimento del padrone che si trasforma in premio.
La risposta che il padrone da’ è gratificante e qualificante: «Bene, servo buono e fedele»; poi una ricompensa materiale: «sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto»; infine una ricompensa morale o spirituale: «prendi parte alla gioia del tuo padrone».
La differenza tra i due e i cinque talenti non incide minimamente sul premio. È l’amore e la fedeltà che ha mosso i due servi. Questi si sono impegnati, perché non hanno avuto paura, hanno saputo amare ed hanno avuto il gusto di poter dare al Signore il patrimonio che avevano ricevuto arricchito con un di più messo dal loro impegno. Se uno vuole trasformare la propria vita, deve partire non con un atteggiamento di paura verso Dio, ma con un atteggiamento di fiducia, deve essere convinto che il Signore lo ami, deve restituire amore per amore. È l’amore che ci porterà a fare ciò che piace a Dio, che ci spingerà a trasformare la nostra vita secondo una forma che sia corrispondente al progetto di Dio.
vv. 24-25: Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: "Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso.
Anche colui che riceve poco si presenta al cospetto del padrone. Qui egli confida la sua paura: paura della durezza e della severità del suo padrone. È sempre la natura del rapporto con il Signore che determina il comportamento quotidiano.
Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo".
Quest’uomo non ha sentito suo il dono di Dio, forse ha provato solo un favore da parte di Dio… pura grazia. Nelle sue parole si nasconde un imperativo: “riprenditelo!”. Un dono restituito, non è semplicemente rifiuto di un dono, ma rifiuto del donatore. Presa di distanza dal donatore.
Quest’uomo è come se avesse rotto e rifiutato, in certo modo, la relazione di comunione con il Padre Celeste e la Sua logica che tutto è dono. È come se avesse voluto innalzare delle barriere; mettere dei paletti ben piantati in terra per segnare dei confini, come per difendersi da qualcuno che è considerato troppo invadente.
vv. 26-27: Il padrone gli rispose: "Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse.
È la risposta del padrone a tale comportamento, la reazione di Dio alle parole di questo suo servoLa malvagità è legata alla pigrizia. Il padrone non dice: “sapevi che io sono un uomo severo”, ma dice: “sapevi che io mieto dove non ho seminato, raccolgo dove non ho sparso”. In queste parole ci sta la logica del dono: mietere e raccogliere dove non si è seminato. Ma non a tutti e dato di comprenderlo. Questa non è severità ma benevolenza da parte di Dio. È l’atteggiamento di colui che ha donato, di colui che ci ha resi capaci della dynamis, della potenza dello Spirito. Il rapporto con i popoli dell’Islam dovrebbe essere vissuto proprio in questo senso.
La parabola ci ricorda che Dio interagisce con la vita degli esseri umani, e gli risponde: “avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse”. Tuttavia non dobbiamo lasciarci ingannare dalle apparenze, ossia dalla modalità della risposta.
Il Padre celeste non è un commerciante, né un affarista e non calcola la nostra corrispondenza in termini di dare ed avere, altrimenti saremmo sempre in svantaggio. Sant’Agostino nelle sue Confessioni (Libro I, 4) ci illumina così: “Non manchi mai di nulla eppure gioisci nell’acquistare; mai avaro eppure esigi gli interessati si presta qualcosa al fine di averti come debitore…per quanto, chi mai possiede qualcosa che non sia già tuo?”
vv.28-30: Toglietegli dunque il talento e datelo a chi ha i dieci talenti.
Inizia la punizione: la privazione di quel bene che il servo non ha saputo mettere a frutto. Il tempo della verifica del suo amore verso il padrone è finito. Il tempo delle opportunità è scaduto ed è giunto il momento del rendiconto: gli viene tolto ciò che in realtà non ha mai accolto nella propria vita.
Il terzo servo è stato trovato dal padrone incapace di relazione, quindi viene privato di quel bene che era il segno e nello stesso tempo il banco di prova di quella relazione che in realtà sono l’amore, il servizio, la condivisione. Tutto quello che fa crescere la comunità e rivela la presenza di Dio.
L’ordine di consegnare il talento a chi ne ha dieci risulta un po’ strano. Un talento in più non cambia la situazione di chi aveva ricevuto la promessa del «molto» e della condivisione della gioia stessa del padrone. Il testo probabilmente vuole indicare che esistono solo due possibilità: avere o non avere. E chi ha, ha molto. Ora il molto che il lettore conosce come quantità espressa dalla parabola è il numero dieci.
Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha.
Il v. 29 riprende quanto viene espresso in 13,12 ed è contraddistinto dall’uso del passivo divino o teologico: «A chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». Questa massima probabilmente era a se stante, perché ricorre in altri passi del vangelo (13,12), ma è messa qui per sottolineare la logica responsabilizzante con la quale opera il padrone e per sottolineare la prospettiva religiosa del narratore.
Con questo versetto il racconto mette in scena il protagonista, cioè Dio, ma senza nominarlo esplicitamente: è con lui che devono confrontarsi tutti i servi. A chi ha ricevuto i suoi doni e li ha accolti, perché attraverso essi crede nel donatore, sarà dato: per queste persone il dono si moltiplica. A chi ha ricevuto i suoi doni, ma non li ha accolti, perché non crede nella fiducia del donatore, sarà tolto anche quello che ha: non ha fatto proprio il dono, ma lo ha messo sotto terra; non ha fatto proprie le sue capacità: quindi nei confronti di questi doni non resta da fare altro che toglierglieli, confermando così la scelta e il comportamento di questo servo.
E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.
Alla fine giunge la punizione morale, quella più importante: la privazione della comunione con il padrone come per le vergini stolte (vedi 25,13). Alla gioia condivisa dai primi dei servi con il padrone fa da contrappunto l’isolamento del terzo servo, gettato fuori, lontano dalla intimità. Con una espressione cara a Matteo si usa il linguaggio della sofferenza per indicare la condanna eterna: «nelle tenebre: là sarà pianto e stridore di denti» (8,12).
La perdizione del terzo servo è descritta coi termini popolari del tempo (tenebre, pianto e stridore di denti): non è il caso di trarre da questo testo informazioni su come è fatto l’inferno, ma piuttosto di trarre lezioni di vita per il presente. È drammatico che questo servo è punito non tanto per quello che ha fatto, ma per quello che non ha fatto, pensando in modo sbagliato del suo padrone. Si ripete quanto era stato detto nella parabola delle dieci vergini, che possono entrare alle nozze solo in un determinato tempo. Chi è trovato senza olio perché non pensava che lo sposo potesse tardare, o chi arriva tardi, ne resta escluso.
Quando ci si chiude in se stessi per paura di perdere il poco che si ha si perde perfino quel poco che si ha, perché l'amore muore, la giustizia si indebolisce, la condivisione sparisce. Invece la persona che non pensa a sé e si dona agli altri, cresce e riceve sorprendentemente tutto ciò che ha dato e molto di più. “Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (10,39).

La Parola illumina la vita
Riconosco di avere da Dio un talento? Come lo impiego?
Riconosco che anche l’altro ha un talento? Lo aiuto a conoscere e valorizzare?
Quei cinque o due o un talento che tu hai ricevuto, hai saputo amare il padrone e quindi usare i talenti per lui rispondendo alla sua fiducia e alla sua speranza?
Rimetto in Dio fiducia o rimango indifferente, sotto terra, nel peccato?
Cosa dice alla mia vita questa frase: “Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha?”

Pregare Rispondi a Dio con le sue stesse parole
Beato chi teme il Signore
e cammina nelle sue vie.
Della fatica delle tue mani ti nutrirai,
sarai felice e avrai ogni bene.        

La tua sposa come vite feconda
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.     

Ecco com’è benedetto
l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion.
Possa tu vedere il bene di Gerusalemme
tutti i giorni della tua vita! (Sal 127)

Contemplare-agire


Far fruttificare i talenti come a lui piace è il dono che io faccio a Lui in un continuo rendimento di grazie vivente.

mercoledì 8 novembre 2017

LE VERGINI STOLTE E LE VERGINI SAGGE

 Lectio divina su Mt 25,1-13


Invocare
O Dio, la tua sapienza va in cerca di quanti ne ascoltano la voce, rendici degni di partecipare al tuo banchetto e fa' che alimentiamo l'olio delle nostre lampade, perché non si estinguano nell'attesa, ma quando tu verrai siamo pronti a correrti incontro, per entrare con te alla festa nuziale. 
Per Cristo nostro Signore. Amen.

Leggere
1Allora il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. 2Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; 3le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l'olio; 4le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l'olio in piccoli vasi. 5Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. 6A mezzanotte si alzò un grido: «Ecco lo sposo! Andategli incontro!». 7Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. 8Le stolte dissero alle sagge: «Dateci un po' del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono». 9Le sagge risposero: «No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene». 10Ora, mentre quelle andavano a comprare l'olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. 11Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: «Signore, signore, aprici!». 12Ma egli rispose: «In verità io vi dico: non vi conosco». 13Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora.

Silenzio meditativo ripetendo mentalmente il testo, cercando di ricordare quanto letto o ascoltato

Capire
Nel vangelo di Matteo dopo il discorso escatologico, che si sviluppa in modo ampio (vedi 24,1-31), abbiamo una serie di parabole; quella delle dieci vergini è la seconda.
Il cap. 24 del Vangelo di Matteo ci lasciava con questo detto: “Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà!” (24,42). Possiamo leggerlo come cerniera alla parabola delle dieci vergini narrata da Matteo dopo il discorso escatologico e serve ad illustrare il detto sopracitato. La parabola fa riferimento al modo in cui si svolgevano le nozze nella Palestina del I secolo d.C. durante il quale un corteo di ragazze (il termine vergine qui ha questo senso) accompagnava gli sposi, di solito verso sera (ciò spiega l'impiego delle lampade).
L'accento è posto sulla necessità di essere pronti per non essere esclusi dal banchetto eterno. Il racconto ha sicuramente un senso allegorico, ma ciò non significa che ogni particolare ha un preciso riferimento a qualcosa d'altro. L'attesa nel testo evangelico è volta al ritorno del Cristo glorioso, applicando a lui l'immagine dello sposo che l'AT aveva utilizzato per Dio. L’attesa è un luogo teologico in cui coltivare il desiderio di Dio (cfr. Sap 6,12-16; Sal 62).
La parabola è riproposta ai cristiani di oggi, per aiutarli a scoprire e riconoscere la “vergine stolta” che si trova in ognuno di loro. Spesso è lei che – senza che se n’avvedano – li prende per mano, li consiglia, li guida, dà suggerimenti e orienta verso scelte insensate.

Meditare
v. 1: Allora il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo.
Il versetto inizia in una maniera esplicita di quanto Gesù sta per dire: “il regno dei cieli è simile…”. Il riferimento è al regno e la similitudine non sono solo le dieci vergini (qui in questione) ma tutto il racconto.
In questa parabola ci sono dieci vergini, che si muniscono delle loro lampade per “l’incontro con lo sposo”.
Queste vergini, che sarebbero delle ragazze che fanno da ancelle, fanno la loro accoglienza allo sposo. Essere ancella significa accogliere (ascolto) lo sposo e la sua parola nella nostra vita. Dentro questa accoglienza, che vuole indicare l’accoglienza del re nella sua parusia, nella visita ufficiale a una città, indica l’accoglienza del Cristo, re singolare, che viene ad aprirci il regno dei cieli.
Questo regno è aperto a tutti. Il numero 10 delle vergini indica la totalità, la pienezza.
Tutte e dieci sono convocate, come in Lc 19,13 il Padrone convoca i suoi 10 servi, ossia tutti, e consegna ad essi una mina.
C’è un inizio e tutto sta all’inizio: i talenti, le mine, la grazia. Tutto deve essere usato bene perché alla fine vi è l’incontro, il rendiconto. È il cammino della vita cristiana la cui metà è il banchetto nuziale, una festa. Per arrivarci è facile sbagliare meta, andare verso le tenebre, occorre prendere la “lampada”, simbolo della fede vigilante (cfr. Lc 12,35) e che può rischiarare.
vv. 2-4: Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l'olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l'olio in piccoli vasi.
Gesù inizia a descrivere le ancelle facendone una fotografia. Le dieci vergini rappresentano il popolo di Israele che attende il messia (lo sposo): una parte di questo popolo (le cinque vergini sagge) è preparata ad accoglierlo ed entra nella comunità cristiana, un’altra parte invece (le cinque vergini stolte) non è attenta ai progetti di Dio, è infedele e resta fuori dalla sala del banchetto.
La stoltezza delle prime cinque ancelle è la prima ad essere nominata. Essa è simbolo di quella comunità (o di quei cristiani) a rischio. Puntano la vita su ciò che è caduco, trascurano i valori autentici, dimenticano l’unica cosa necessaria (simbolo della scorta d’olio), quella che Maria aveva scelto stando ai piedi del Signore e divenendo sua discepola (Lc 10,38-42).
La saggezza invece è simbolo delle vergini o cristiani vigilanti che non si lasciano sedurre dalle vanità e rimangono concentrati su ciò che è importante nella vita, pronte ad affrontare ogni evenienza.
Per poter fare l’incontro c’è bisogno di quest’olio. Esso indica la perseveranza della fede, la vigilanza spirituale, e permette alla lampada di dare luce. La lampada è il simbolo dell’amore vivo verso lo Sposo.
Questo particolare rimanda alla conclusione del discorso della montagna dove viene descritto che il saggio è colui che ascolta la Parola e la mette in pratica (7,24-25). Diversamente lo stolto è colui che ascolta la Parola ma non la mette in pratica e costruisce la sua vita sulla sabbia (7,26-27).
v. 5: Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono.
Al di là delle differenze tra le ancelle, tutte convivono insieme, ancora non sono divise, stanno insieme come la zizzania e il grano buono (13,24-30).
L’evangelista continua a sottolineare altri particolari: il ritardo dello sposo, della parusia, della venuta finale di Gesù, un vero e proprio trauma per le prime generazioni cristiane. Questo ritardo improvviso fa assopire e addormentare le dieci vergini.
Può verificarsi curiosa questa “dormitio”. Possiamo accostare questo sonno alla notte del maligno, momento in cui vi è buio, confusione, lui semina zizzania (cfr. 13,25).
vv. 6-7: A mezzanotte si alzò un grido: "Ecco lo sposo! Andategli incontro!". Finalmente arriva il giorno senza fine, l’ora più inattesa, l’ora in cui il Signore viene e ci sorprende come un ladro nella notte, afferma a più riprese il NT (cfr. Mt 24,43; 1Ts 5,2-4; 2Pt 3,10; Ap 3,3; 16,15). Tutte le ragazze si svegliano al grido. Cessa il ritardo. C’è solo lo sposo (cfr. nell'AT per indicare Dio: Ger 31,32; Is 54,5; Os 2,18; cfr. nel NT il riferimento è Cristo: Mt 9,15; Gv 3,29; 2Cor 11,2; Ef 5,21-33; Ap 21,2.9; 22,17), il Veniente (del resto da 24,29 a tema è proprio il ritorno glorioso del Cristo). C’è un invito a cui rispondere. Solo il servo cattivo continua a pensare al ritardo (24,48), ma il Signore viene inesorabilmente per concludere i conti finali (25,19).
Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. 
All’udire questa voce potente, tutte le vergini, come si erano addormentate, così si destarono, “risorgono” (egheíro). La luce del Veniente irrompe nella loro vita per risorgerla. San Paolo invita: “Svegliati o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà” (Ef 5,14).
È un imperativo rivolto a tutti coloro che dormono nel sonno della propria autoreferenzialità, dell’indifferenza dell’altro, a chi pensa di poter fare a meno di Dio, a chi nutre sentimenti di potenza o di onnipotenza sul fratello. Cristo ci tiene desti, svegli, attenti, ci mantiene in piedi come il germoglio che spunta dalla terra durante il gelo invernale e ci invita a preparare le proprie lampade.  
Il preparare le lampade è il simbolo di una comunità che celebra, che si prepara a fare l’incontro.
vv. 8-9: Le stolte dissero alle sagge: "Dateci un po' del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono". Le sagge risposero: "No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene".
Anche se il sonno, il buio, le difficoltà le hanno accomunate, qui, all’interno della comunità, si manifesta la differenza. Le cinque stolte non hanno con sé l’olio, dunque sono costrette a chiederne un po’ alle altre cinque, ma si scontrano con il rifiuto delle sagge e sono costrette a recarsi dai venditori.
A prima vista abbiamo davanti a questa risposta una sorta di egoismo, di mancanza di carità. Siccome stiamo parlando della parusia, del giudizio finale, in altre parole, le sagge dicono alle stolte: “ognuno deve rispondere per sé”. Non si tratta di condivisione o di aiuto vicendevole. L’incontro con il Signore va preparato prima, non si può rimediare affannosamente all’ultimo istante.
Che cos’è quest’olio di cui ognuno deve avere scorta? L’olio indica la perseveranza della Fede, la vigilanza spirituale, e permette alla lampada di dare luce. Nella Bibbia l'olio è spesso segno di ospitalità e di intimità (cfr. Sal 23,5). L'olio era anche segno di prosperità e soprattutto un simbolo messianico perché usato nelle consacrazioni regali (Sal 45,8) e sacerdotali (Sal 133), infatti la parola ebraica “Messia” e la sua traduzione greca “Cristo” come sappiamo, significano “Unto” con l'olio santo.
Nella tradizione giudaica l'olio era il simbolo delle opere giuste che aprono le porte del regno di Dio. Quest’olio o lo si ha in sé oppure nessuno può pretenderlo dagli altri: è l’olio del desiderio dell’incontro con il Signore.
Non basta essere invitati al banchetto del regno, bisogna saper ricercare la sapienza (Sap 6,12). Essa è dono che viene dall’Alto. Essere sapienti non è conquista personale, ma perseveranza nelle opere, attingendo all'olio dell'impegno fedele e generoso lasciando che la lampada arda fino all’arrivo dello sposo.
v. 10: Ora, mentre quelle andavano a comprare l'olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa.
Rimanere privi dell’olio porta l’affanno, porta la morte; occorre porre rimedio. Le vergini stolte cercano di comprare, ma l’olio di cui hanno bisogno non si può mercanteggiare. Ormai rimane solamente affrontare il Giusto Giudice. Troveranno purtroppo la porta chiusa.
La chiusura della porta ha un richiamo in Gen 7,16b quando il Signore stesso chiuse la porta dell'arca dove Noè aveva trovato alloggio. Qui è la stessa cosa, indica la fine di tutte le opportunità. Da qui l’urgenza di stabilire come impiegare bene la vita e l’immagine della lampada accesa suggerisce il modo.
vv. 11-12: Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: "Signore, signore, aprici!". Ma egli rispose: "In verità io vi dico: non vi conosco".
Vivere senza fede e l’amore verso Gesù e la sua Parola, impedisce di entrare nel Regno dei Cieli, si rimane fuori, si sceglie di restare fuori, esclusi dal Regno. Questo è l'incapacità dell'uomo a capire i misteri del Regno di Dio e, quindi, la necessità di un dono che venga dall'Alto.
Le escluse però non si danno per vinte e implorano da fuori e nonostante hanno fatto una scelta non distinguono fra coloro che sono “dentro” e loro (o coloro) che rimangono “fuori”.
Lo sposo qui è riconosciuto come Signore. Altrove Matteo aveva sottolineato: “non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel Regno dei cieli” (7,21). Infatti, la risposta dello sposo, chiamato Signore, c è molto dura: cioè l’Amen, il Fedele: “non vi conosco” (il v. 12 ha un parallelo in 7,23 e Lc 13,25-27). L'espressione significa in questo contesto: non voglio avere nulla a che fare con voi (come in Mt 26,74, nel rinnegamento di Pietro).
Le stolte si ritrovano respinte dallo Sposo e dalle compagne: sono fuori!
v. 13: Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora.
Siamo all’epilogo, un ultimo richiamo alla vigilanza. La vigilanza va intesa come un atteggiamento vitale complessivo fatto di desiderio e attenzione, di amore operoso e di speranza.
Forse una cosa che può consolare le stolte è che quest’invito alla vigilanza è fatto anche alle sagge. Anch’esse si sono addormentate. La venuta dello Sposo è sempre “adesso”!
Con questa esortazione valida per tutti i tempi, Cristo ci chiama ad essere vigili per essere pronti il giorno in cui tornerà e ci dà anche un prezioso consiglio su cosa dobbiamo fare durante la nostra attesa: “Ricordati dunque come hai ricevuto e ascoltato la Parola, continua a serbarla e ravvediti. Perché, se non sarai vigilante, io verrò come un ladro, e tu non saprai a che ora verrò a sorprenderti” (Ap 3,3).

La Parola illumina la vita
Attendo ancora il Veniente oppure ho per la sua venuta lo stesso entusiasmo di quelli che aspettano l’autobus alla fermata?
Che tipo di vigilanza è quella a cui Gesù vuole esortarmi? Dove sta la differenza tra le stolte e le sagge, se tutte indistintamente si assopiscono e dormono?
Come alimento la lampada della mia fede perché rimanga sempre accesa?
Come manifesto il mio essere annunciatore dell'invito al banchetto della vita? Oppure non ho tempo per occuparmi delle cose di Dio?

Pregare Rispondi a Dio con le sue stesse parole
O Dio, tu sei il mio Dio,
dall'aurora io ti cerco,
ha sete di te l'anima mia,
desidera te la mia carne
in terra arida, assetata, senz'acqua.

Così nel santuario ti ho contemplato,
guardando la tua potenza e la tua gloria.
Poiché il tuo amore vale più della vita,
le mie labbra canteranno la tua lode.

Così ti benedirò per tutta la vita:
nel tuo nome alzerò le mie mani.
Come saziato dai cibi migliori,
con labbra gioiose ti loderà la mia bocca.

Quando nel mio letto di te mi ricordo
e penso a te nelle veglie notturne,
a te che sei stato il mio aiuto,
esulto di gioia all'ombra delle tue ali. (Sal 62).

Contemplare-agireAlimentiamo la lampada della fede, della speranza, della carità. Gesù non viene solo al termine della nostra vita, ma in ogni istante e vuole trovarci impegnati nel servizio, nel dono di sé ai fratelli, perché tutti abbiano la vita.  

giovedì 7 settembre 2017

IL RICCO STOLTO

Lectio divina su Lc 12,13-21

Invocare
O Dio, principio e fine di tutte le cose, che in Cristo tuo Figlio ci hai chiamati a possedere il regno, fa’ che operando con le nostre forze a sottomettere la terra non ci lasciamo dominare dalla cupidigia e dall’egoismo, ma cerchiamo sempre ciò che vale davanti a te.
Per Cristo nostro Signore. Amen.

Leggere
13Uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». 14Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?».
15E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
16Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. 17Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. 20Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. 21Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

Silenzio meditativo ripetendo mentalmente il testo, cercando di ricordare quanto letto o ascoltato

Dentro il Testo
Nella sezione del Vangelo che iniziamo a leggere in questa domenica, Luca ci propone una serie di testi che hanno come filo conduttore il tema dell'attenzione, della vigilanza. Sono brani molto diversi tra di loro, ma che forniscono al discepolo regole di vita per la quotidianità.
In questa domenica abbiamo la parabola del ricco stolto che continua a ripetere che il vantaggio sta nella ricchezza, negli agi.
Con questa parabola, Luca descrive una questione seria nella vita cristiana, un problema che deve essere affrontato decisamente: i beni terreni (ricchezza). La Bibbia già tratta il problema trovando una benedizione di Dio nella ricchezza (cfr. Dt 8,18). C’è da chiedersi se la ricchezza può prendere il posto di Dio o delle cose più importanti. Lo ribadisce il profeta Geremia dove invita a trovare vanto nel Signore (cfr. Ger 9,22-23).
Nella grande sezione del viaggio verso Gerusalemme, dove il discepolo è istruito in uno stile di vita e iniziato alla sequela, due capitoli sono dedicati a questo tema: “Guardatevi dalla cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni”. Questo è il messaggio esplicito del vangelo di oggi che ci dice che la ricchezza può darci atteggiamenti sbagliati verso le cose materiali. Il nostro cuore deve porsi su un piano alto (cfr. Mt 6,21).

Meditare   
v. 13: uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità».
Abbiamo una persona anonima che espone a Gesù un problema di eredità. Questo tale non è solo quel personaggio ignoto, anzi ricordiamo: un personaggio del vangelo riportato senza nome, indica ciascuno di noi. Gesù è un rabbi e in quanto tale Egli non era solo un maestro, un teologo ma anche un giurista e poteva essere chiamato ad intervenire su questioni di diritto.
C’è sempre qualcuno che chiama Gesù in causa. Ma si vede benissimo che non conoscono Gesù. Infatti, la domanda pur legittima, ha in sé una grande illusione: Gesù non può essere chiamato a risolvere i problemi di divisione delle ricchezze, per il semplice fatto che la ricchezza divide.
v. 14: O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?
Gesù rifiuta nettamente il ruolo di mediatore. Nell’ottica di una grande illusione di cui i due fratelli sono vittime, non vuole essere considerato una specie di giudice conciliatore, ma come Colui che sa scoprire e indicare le ragioni ultime che determinano le divisioni e i contrasti fra gli uomini, e che si riassumono in concreto nell’egoismo e nella cupidigia.
La domanda è occasione per Gesù per esortare i due fratelli ad evitare la brama di possesso e cercare la ricchezza interiore.
v. 15: Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché,
La cupidigia è un vizio che generalmente veniva considerato caratteristico dei pagani. In 1Tm 6,6-12, Paolo tenta di spiegarne il significato. Al v. 5 viene riportato che qualcuno stima la pietà come fonte di guadagno. A tal proposito, Paolo al versetto successivo risponde Questa è la chiave della definizione della cupidigia: si tratta di desiderare talmente qualcosa da perdere l’appagamento in Dio. “La pietà con animo contento del proprio stato, è un grande guadagno”.
Quindi l’opposto della cupidigia è l’appagamento in Dio. Ecco perché Paolo in Col 3,5 dice che la cupidigia è idolatria. “Fate dunque morire le vostre membra che son sulla terra: fornicazione, impurità, lussuria, mala concupiscenza e cupidigia, la quale è idolatria”. È idolatria perché l’appagamento che il cuore dovrebbe ricevere da Dio comincia a trarlo da qualcos’altro. In altri termini, la cupidigia è perdere l’appagamento in Dio in modo da cominciarlo a cercare altrove.
Nel decalogo abbiamo un inizio e una fine quasi tutti simili. “Non avrai altro dio all’infuori di me” (Es 20,3) e “Non concupire” (Es 20,17) sono quasi identici. Concupire è desiderare qualcosa di diverso da Dio in modo da palesare la perdita di appagamento e soddisfazione in lui. La cupidigia è lo stato di un cuore diviso tra due dei, ragione per cui Paolo la chiama idolatria.
anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede.
Gesù fa un’affermazione molto severa quando dice: “La sua vita non dipende dai suoi beni”. Quasi a dire che un uomo non è quello che ha. Qui l’affermazione è molto chiara e ha una portata antropologica: la vita di un uomo non è rappresentata dai suoi beni. L’abbondanza spesso ci fa considerare gli uomini e la dignità degli uomini come la dignità di coloro che sono perché hanno. Per Gesù non è così. C’è una condizione che è altra rispetto a ciò che uno ha. Purtroppo spesso si pensa che i beni materiali, la ricchezza in particolare, diano più valore, più importanza e più prestigio del bene o del male che uno può compiere.
Per questo motivo Luca invita alla vigilanza per non farsi imprigionare dalla transitorietà. cercando di pensare alla vita eterna, anche se qui non viene specificato, lo dirà meglio al v. 21.
vv. 16-18: Poi disse loro una parabola: La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Per mostrare quanto questo atteggiamento sia sbagliato, la Parola si rende ancora presente attraverso lo stile rabbinico che Gesù usa fare, come è suo solito, con una parabola. Per arrivare al nostro cuore usa la parabola del ricco stolto che crede di essere al sicuro per molti anni, avendo accumulato molti beni e a cui la notte stessa viene chiesto conto della vita. È da notare che in questo versetto vige l’abbondanza: l’uomo è ricco e il raccolto è abbondante. Tutto questo si può dire una benedizione dal Signore (cfr. Qo 9,7-9; Sir 11,18-19).
Luca presenta un uomo la cui caratteristica è quella di essere ricco proprietario terriero . Non si dice se egli si sia arricchito in modo onesto o disonesto. Egli è ricco e i suoi campi rendono al massimo.
Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così - disse -: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni.
Non è la prima volta che nel Vangelo ritroviamo qualcuno che ragiona tra sé. Spesso capita se avanziamo la pretesa di essere nel giusto anche dinanzi a Dio (cfr. Lc 18,9-14). Il ragionare tra sé non porta alla condivisione del cuore, ma a isolarsi da tutto e da tutti quasi a far diventare la benedizione uno strumento di morte.
Il suo ragionamento lo induce a costruire depositi nuovi e più grandi dove immagazzinare «tutto il grano e i miei beni», quasi come quel servo che ricevette quel solo talento e lo sotterrò per paura di perderlo (cfr. Mt 25,14-30).
v. 19: Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”.
Questo versetto è proprio negativo. Sì, presenta un programma di vita ma privo di amore. Il suo monologo tira le conseguenze per la sua futura esistenza.
La parabola del ricco “stolto” condanna proprio questo assurdo comportamento; egli ricorda che i beni, lungamente agognati, non liberano dalla morte, ma addirittura compromettono la vita perché privano della tranquillità e soprattutto impoveriscono il cuore impedendogli di aprirsi verso gli altri nella carità e nell’amore.
Non è nella bramosia e nell’abbondanza dei beni che l’uomo può assicurarsi una vita senza fine o per lo meno una sicurezza di vivere che lo tuteli da ogni esperienza avversa.
v. 20: Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”.
La parabola va a chiudersi. Il Signore qualifica l’uomo “stolto”. Il motivo di ciò sta nel fatto che l’uomo non ha capito la vita, non l’ha vissuto pienamente. In realtà quello che lui ha vissuto è un suo sogno personale: la realtà della vita non l’ha compresa e non l’ha accettata correttamente. Perché la vita dell’uomo non si fonda sull’avere, non si riduce all’avere, ma è dono da accogliere con riconoscenza e con gioia nella grazia del Signore.
Come accade molte volte nelle parabole, il giudizio che noi saremmo portati a pronunciare viene bruscamente capovolto. Il protagonista della parabola era così impegnato a far grano, a farsi ricco che non ha avuto né tempo né energia per arricchire davanti a Dio. Adesso si trova nell’ombra della morte, costretto a lasciare le sue ricchezze ad altri. Qui sta la sua stoltezza: aver dimenticato che la vita è un dono di Dio e che ritorna a lui in qualsiasi momento.
L’illusione della ricchezza “compra” quella domanda comune a tutti: : “Cosa c’è di male?”. Sono tante le omissioni della nostra vita, ma c’è un’omissione fondamentale che consiste nel dimenticare Dio.
v. 21: Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio.
Qui abbiamo il senso della parabola. In che consiste questo diverso modo di arricchire? Gesù lo spiega poco dopo: “Fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore” (Lc 12, 33-34).
C'è qualcosa che possiamo portare con noi, che ci segue dovunque, anche oltre la morte: non sono i beni, ma l’amore verso l’altro; non ciò che abbiamo avuto, ma ciò che abbiamo fatto. La cosa più importante nella vita non è dunque avere dei beni, ma fare del bene. Il bene avuto resta quaggiù, il bene fatto lo portiamo con noi. Dice l'apostolo Paolo: "pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra" (Col 3,1). Le cose di lassù non sono quelle astratte, sono l'amore e le opere buone che facciamo su questa terra.
Gesù invita ad accumulare "davanti a Dio", ovvero di puntare su ciò che non viene sottratto con la morte: l'impegno che il Regno di Dio, che non cade con la conclusione della vita. “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde l’anima sua?” (Mt 16.26). E ancora: badate e guardatevi; perché non sta la vita di alcuno nell’abbondanza dei suoi averi” (Lc 12.15).

Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato

La Parola illumina la vita e la interpella
Quali tesori sto accumulando? Quelli davanti a Dio o quelli davanti agli uomini?
Quale logica sto vivendo? Quella del Regno o quella del mondo? Quella della condivisione o quella dell'accumulo?
Sono cosciente che quello che possiedi ti viene dato da Dio, oppure mi sento padrone assoluto dei miei beni?
Sono capace di condividere con gli altri il frutto del mio lavoro?

Pregare Rispondi a Dio con le sue stesse parole
Tu fai ritornare l’uomo in polvere,
quando dici: «Ritornate, figli dell’uomo».
Mille anni, ai tuoi occhi,
sono come il giorno di ieri che è passato,
come un turno di veglia nella notte.

Tu li sommergi:
sono come un sogno al mattino,
come l’erba che germoglia;
al mattino fiorisce e germoglia,
alla sera è falciata e secca.

Insegnaci a contare i nostri giorni
e acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore: fino a quando?
Abbi pietà dei tuoi servi!

Saziaci al mattino con il tuo amore:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l’opera delle nostre mani,
l’opera delle nostre mani rendi salda. (Sal 89).

Contemplare-agire  L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità…
Lasciamo guidare dallo Spirito di Dio nella quotidianità per usare i beni per il bene e preghiamo oggi così: "Insegnaci, Signore, a usare saggiamente i beni della terra, sempre orientati ai beni eterni".